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Avvolgente e inaccessibile. Doppio sguardo su Der Bau di Isabelle Schad e Laurent Goldring

Intrappolato e protetto
Lo spazio Tese dei Soppalchi all’Arsenale è uno spazio intimo, raccolto. Entrati nella penombra e abituata la vista al buio, si viene travolti da un’installazione che sovrasta la scena. Si tratta di un rettangolo luminescente sospeso sul palco a pochi metri da terra. La luce è bianca, materica e lattiginosa, soffitto fittizio che comprime lo spazio e indirizza l’occhio a percorrere in direzione orizzontale la scena semivuota. Nel silenzio, rotto solo dal respiro, la figura di un corpo raccolto si anima. Assistiamo a un risveglio, allo schiudersi degli arti, un corpo lentamente vivificato del quale passo passo, attraverso le stesse mani che gli appartengono, viene presa coscienza. È un corpo svestito, nudo, femminile. Il corpo di Isabelle Schad, diversissimo da quello imbozzolato in una pelliccia muschiosa di Luigi Lo Cascio in una sua versione della Tana di qualche anno fa.
Der Bau è il titolo dello spettacolo, ispirato all’omonimo racconto di Kafka, coreografato dalla stessa Isabel Schad e da Laurent Goldring. Alla dimensione della tana rimanda l’abitare lo spazio della performance, il tessuto metafora della terra scavata, manovrata, percossa, erosa, prende forme di pieno e vuoto, riveste il corpo ne evidenzia le geometrie o le cela. Le tonalità sono quelle del terreno: dal nero delle buie profondità sino alla tinta dell’incarnato dove stoffa e pelle paiono essere in diretta continuità. La tensione e la foga con cui i teli sono agiti fa percepire la presenza in bilico tra l’umano e l’animale in linea con lo stimolo kafkiano, «senza riguardo al sonno e alla stanchezza; allora mi affanno, allora volo, non ho tempo di far calcoli; volendo eseguire un piano nuovo e preciso afferro a capriccio ciò che mi capita fra i denti, trascino, porto, sospiro, gemo, inciampo». Uno stacco segnato dal buio vede l’entrata in scena di due tecnici che raccolti i tessuti li distendono uno accanto all’altro come un unico tappeto. E il corpo si arrampica, cammina eretto. La terra è sotto i piedi, telo dopo telo pare condurre lentamente in superficie. Allora il nostro punto di vista si sposta, con la Figura, verso l’esterno. Vediamo il corpo avvilupparsi, sprofondare, immergersi nuovamente nella terra fino a esserne ricoperto. I contorni si perdono. E sulla scena rimane una massa, un gomitolo che ingloba i tessuti e il corpo stesso, sommerso, fagocitato, intrappolato, protetto. Marta Vettorello

DER BAU_1_credit Laurent Goldring

ph Laurent Goldring

Avvolgente e inaccessibile
Potrà risultare paradossale a chi non è abituato a quella che spesso viene definita “danza di ricerca” (o “danza d’autore”, a seconda delle diverse etichette e scuole di pensiero), ma dei diversi media utilizzati in uno spettacolo di danza, la danza può a tutti gli effetti non essere il primo strumento espressivo in ordine di importanza. Alcuni esiti della ricerca coreografica internazionale, come Der Bau di Isabelle Schad e Laurent Goldring, studiano la relazione tra lo spazio e il movimento del corpo inserendo la danza in un sistema di segni più ampio.
In questo caso specifico, gli elementi principali, senza contare i suoni di Peter Böhm, sono tre: il corpo nudo della danzatrice berlinese (Isabelle Schad), grandi teli di stoffe dai colori terrosi o polverosi e un’installazione luminosa della stessa dimensione del palcoscenico che, in forma di parallelepipedo, campeggia a mezz’aria sopra la scena diffondendo una luce fioca.
È dal 2008 che Isabelle Schad e Laurent Goldring portano avanti una ricerca comune, ma per noi spettatori della Biennale di Venezia chiamati a raccontare questa singola esperienza non è facile organizzare un pensiero compiuto senza dimenticare completamente l’esistenza di tutti i capitoli di lavoro precedenti, che sono riuniti sotto il nome di Unturtled #1 – #4 e che, purtroppo, non abbiamo visto.
Usciti dal teatro, resta la perplessità di un’opera che, nonostante il riferimento alla novella incompiuta di Kafka, non si riesce a risolvere perfettamente specialmente negli occhi di uno spettatore “neofita” rispetto al lavoro del duo franco-tedesco. Per la durata di un’ora, il corpo di Isabelle Schad si scuote ed è scosso, avvolgendosi intorno, sopra e sotto i grandi teli che – sul finale – diventano un guscio avvolgente e soffice in cui rotolarsi dando vita a una sequenza di forme morbide e sinuose, certo, ma un poco scontate se questo è l’esito di uno studio di lunga data di cui noi riusciamo a intravedere – e solo a intravedere – la completa finezza e profondità. Gaia Clotilde Chernetich

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